Teatro dei Vigilanti – Renato Cioni | Portoferraio
Solisti del Festival – Beethoven, Mozart, Mendelssohn
Boris Garlitsky violino | Georgy Kovalev viola | Giovanni Gnocchi, Raphael Bell violoncelli | Elena Garlitsky pianoforte
L. van Beethoven | Duo per viola e violoncello Con occhiali obbligati |
W.A. Mozart | Quartetto per pianoforte e archi K. 493 |
F. Mendelssohn | Trio per violino, violoncello e pianoforte n. 2 op. 66 |
I. Allegro
II. Menuetto
Duo in mi bemolle maggiore per viola e violoncello WoO 32 Con occhiali obbligati, concepito da Ludwig van Beethoven attorno al 1796 per l’amico e violoncellista dilettante Nikolaus Zmeskall von Domanovecz, la cui scarsa vista ha forse suscitato la bonaria e amichevole dedica dal compositore, amante degli scherzi verbali e dei giochi di parole. Opera vivace e brillante, unicum assoluto per questa formazione, il duo è stato verosimilmente composto a Vienna, tra il 1796 e il 1797, anni in cui il compositore, promettente allievo di Haydn, ebbe accesso, tramite il maestro, a influenti mecenati, tra i quali il conte Waldstein e i principi Esterhazy, Lichnowsky e Razumovsky.
Wolfgang Amadeus Mozart – Quartetto per pianoforte n. 2 in mi bemolle maggiore, K 493
I. Allegro
II. Larghetto
III. Allegretto
Un organico molto particolare e nei tempi di Mozart quasi impraticabile, quello del Quartetto o Quintetto per pianoforte con altri strumenti: perché il pianoforte veniva per lo più abbinato all’orchestra (anche da camera) nel genere del Concerto, e gli archi si disponevano in formazioni omogenee, come il Quartetto e il Quintetto. Anche nel catalogo del genio salisburghese troviamo soltanto due Quartetti per pianoforte e archi: il primo, in sol minore, reca il numero K. 478 e la data del 16 ottobre 1785; il secondo, il nostro, in Mi bemolle maggiore K. 493, è conseguente di poco meno di un anno (Vienna, 3 giugno 1786) e occupa, nel catalogo mozartiano, la posizione successiva alle Nozze di Figaro (K. 492). Eppure dovevano essere ben tre! Vi fu una commissione risalente all’estate del 1785 da parte dell’editore Franz Anton Hoffmeister per la composizione di una serie di tre Quartetti con pianoforte da destinare al pubblico viennese dei più colti amatori e dilettanti. Era abbastanza coraggioso questo editore, che evidentemente voleva tentare nuove strade nella musica da camera. Ma dopo l’insuccesso commerciale del primo, pubblicato alla fine del 1785, Hoffmeister pregò Mozart di non comporre più gli altri due Quartetti e di considerare annullato il contratto, dichiarandosi però pronto a lasciargli l’acconto versato. In realtà il secondo Quartetto (K. 493) era già in fase di lavorazione e per questo Mozart si rivolse a un altro editore, Artaria, già editore dei Sei Quartetti dedicati a Haydn, offrendoglielo in alternativa. E Artaria, più audace e disponibile del collega, lo acquistò, per pubblicarlo poi nel luglio 1787. Ma evidentemente a questo punto di un terzo Quartetto non si parlò più. Un vero peccato perché soprattutto nel Quartetto K 493 Mozart raggiunge la perfezione nell’equilibrio tra il pianoforte, sempre molto presente e virtuosistico, ma “corretto” e democratico, mi viene da dire, nel rapporto con i suoi compagni archi. L’esecuzione poteva essere affidata solo a dei veri professioni, anche piuttosto bravi! Un critico scriveva a proposito di questa composizione nel 1788: “Quale differenza, quando questa lodatissima composizione viene eseguita con la massima precisione da quattro musicisti professionisti e ben preparati, in un ambiente piccolo, dove neppure le pause tra nota e nota sfuggono all’orecchio attento e davanti a non più di due o tre persone veramente interessate! In questo caso però non c’è davvero da pensare al successo esteriore, al favore della moda o a lodi convenzionali”. E ancora un’opinione rispettabilissima di Alfred Einstein: “Un brano per pianoforte e archi, nelle mani di Johann Christian Bach e di Philipp Emanuel Bach, diventa automaticamente un Concerto per pianoforte; Mozart invece riesce a trattarlo come pura musica da camera, esigendo dal pianista un virtuosismo da concertista ma intessendo gli archi nello stesso materiale tematico, in una dimensione che non ha più nulla a che vedere con il dilettantismo musicale”.
Nel primo movimento regna un clima sereno e lucido, colpisce la maestria nella costruzione dello sviluppo praticamente su un breve motivo elaborato nelle varie tonalità. Nell’insieme c’è sempre il pianoforte che introduce i nuovi temi, che poi vengono ripresi dagli archi, sempre pronti all’imitazione e alla variazione. Nel Larghetto, di una certa drammaticità, con delle pause di trepida attesa, predomina il pianoforte, che espone i temi che vengono conclusi dagli archi. Il Rondo Allegretto finale è basato su un tema di autentica semplicità, purezza e bellezza divine: i passaggi veloci del pianoforte rendono continuamente il clima festoso e gioioso.
La lezione di Mozart non rimase inascoltata: questi due Quartetti e un altro suo capolavoro, il Quintetto per pianoforte e fiati, K 452, hanno stimolato Beethoven a scrivere il Quintetto op.16 ma dopo di lui anche Mendelssohn, Schumann e Brahms si sono dedicati alle opere da camera per pianoforte e altri strumenti.
Felix Mendelssohn-Bartholdy – Trio per violino, violoncello e pianoforte n. 2 op. 66
I. Allegro energico e con fuoco
II. Andante espressivo
III. Scherzo. Molto allegro quasi presto
IV. Finale. Allegro appassionato
Al Trio per pianoforte, violino e violoncello Felix Mendelssohn Bartholdy si dedicò in due occasioni, negli anni della maturità, con il Trio in re minore op. 49 del 1840 e il Trio in do minore op. 66, della primavera 1845. Questo secondo lavoro venne scritto a Francoforte nei mesi successivi all’abbandono dell’incarico di direttore della cappella di Federico di Prussia, che il compositore deteneva, a Berlino, dal 1841. Se si aggiunge che Mendelssohn ricopriva, dal 1835 e parallelamente, il ruolo di direttore del Gewandhaus di Lipsia, e si prodigava inoltre nella direzione di diversi festival musicali, le tournées a Londra, l’attività didattica, la rielaborazione di opere del passato, si avrà il quadro di una operosità frenetica e instancabile, destinata a consumare precocemente la fibra del compositore. Lo stesso autore, al pianoforte, doveva essere fra i primi interpreti del Trio op. 66, che venne dedicato a Ludwig Spohr, amico e compositore di alto valore.
Nell’applicarsi tardivamente al genere del Trio con pianoforte con i suoi due lavori, Mendelssohn teneva presente la direzione indicata da Franz Schubert nel rinnovare l’approccio alla peculiare formazione cameristica, spingendosi tuttavia più oltre sulla strada di una connotazione più complessa e “romantica” del genere. E, d’altra parte, è noto come Mendelssohn, compositore precocissimo, avesse conquistato fin da giovanissimo una propria fisionomia creativa, senza essere in seguito soggetto a significative e profonde evoluzioni.
Nell’iniziale Allegro energico e con fuoco da un tema basato sui semplici arpeggi del pianoforte nasce una musica di carattere tumultuoso, con forti contrasti, momenti di calma e di meditazione, di sincera liricità e romantici slanci. Particolarmente lunga ed elaborata la coda, sembra che il compositore non abbia voglia di abbandonare la sua creatura e ritorna più volte al materiale musicale, costituito dal gioco di arpeggi in varie tonalità, affidando al pianoforte le ricche sonorità prodotte dai possenti accordi e le ottave “con forza”.
Il successivo Andante espressivo è forse l’unico movimento che conserva il carattere “mondano” del trio con pianoforte; consiste in una tenera barcarola in 9/8, aperta dal pianoforte solo, e ripresa poi in modo cullante dagli archi.
Con lo Scherzo, Molto allegro quasi presto, ci troviamo di fronte a una delle tipiche pagine consimili di Mendelssohn, leggere, aeree, scorrevolissime, con un tocco di demoniaco; l’unica relativa parentesi in questo moto perpetuo è garantita dalla sezione del trio, dove gli archi si lasciano andare a una melodia dal carattere popolare.
Le prime due note del Finale, Allegro appassionato, un impressionante salto dell’intervallo di nona minore, del violoncello in apertura e poi ripreso da altri strumenti, in seguito fu usato da Brahms nella sua Sonata op.5. Tutta la parte del pianoforte è in tripudio di brio, di forza, di passione ininterrotta. Tranne, naturalmente, il corale “Gelobet seist Du, Jesu Christ”, o “Lode a te, Gesù Cristo” del XVI secolo citato dal pianoforte nella parte centrale. Il tema del corale si risente nella coda che giunge alla fine di questo geniale rondò, sempre in crescendo quasi sinfonico e nella tonalità di Do maggiore festoso.