Domenica 28 agosto – ore 18.30
Villa Romana della Linguella | Portoferraio

Andrea Lucchesini – Solisti del Festival – Beethoven, Franck, Dvořák


Jing Zhao, Raphael Bell violoncelli | Georgy Kovalev viola | Boris Garlitsky, Aki Saulière violini | Andrea Lucchesini pianoforte

L. van Beethoven Sonate per violoncello e pianoforte nn. 4 e 5 op. 102
C. Franck Preludio, corale e fuga per pianoforte (1884)
A. Dvořák Quintetto per pianoforte e archi op. 81

Ludwig van Beethoven – Sonata in Do maggiore op. 102 n. 1

I. Andante. Allegro vivace
II. Adagio. Allegro vivace

Innanzitutto un breve discorso su questo intero capitolo della cameristica beethoveniana. La produzione di Beethoven per questa formazione di duo strumentale, infatti, non molto densa di prodotti, è però molto densa di valori e di importanza: non solo nell’arco biografico-stilistico beethoveniano, ma nella storia stessa della musica da camera. Trattenuto fino ad allora nel ruolo tradizionale di «basso», di sostegno accompagnante di ogni formazione strumentale cameristica, il violoncello comincia proprio qui, con Beethoven, ad assumere il ruolo di strumento «concertante», alla pari con l’altro, o con gli altri (si veda anche, in tal senso, l’evoluzione del trattamento strumentale nei Trii per archi). Strumento dialogante in un vero e proprio «Duo», nelle Sonate: le quali però, nella destinazione esplicita del titolo, si chiamano Sonate per pianoforte e violoncello, e non viceversa. Così come si intitolano Sonate per pianoforte e violino, e non viceversa, le dieci dell’altra formazione di duo. Donde sarebbe curioso osservare come Beethoven – ma non lui solo – in omaggio e in rispetto di funzioni dialoganti e concertanti fra i due agonisti del complesso, da un lato in certo modo ridimensionò (non si può dire declassò) le tradizionali funzioni protagonistico-melodiche e brillanti del violino; dall’altro innalzò ed esaltò quelle del violoncello fino ad allora mantenute a livelli dimessi e non certo protagonistici. Anzi: Sonate con violoncello obbligato era il titolo beethoveniano delle prime due della sua serie, l’op. 5, composte nel 1795-96 e pubblicate a Vienna nel 1797. Nell’evoluzione, e relativa storia, dello stile e del linguaggio beethoveniano, le due Sonate op. 5 sono ascrivibili alla cosiddetta prima maniera; mentre, nella concezione «duistica», il violoncello è provocato ancora un po’ forzatamente ad esulare da quei suoi ruoli secondari, di cui si diceva sopra, per stare alla pari o quasi con la ben più familiare e disinvolta trattazione beethoveniana del discorso nel pianoforte. Quindi, una sorta di esercitazione discorsiva, ma anche virtuosistica, molto abile e raffinata è condotta nei tre gruppi di Variazioni (1796-1801): le dodici su un’Aria dal Giuda Maccabeo di Händel; le altre dodici, op. 66, su Ein Mädchen oder Weibchen dal Flauto magico di Mozart; e le sette su Bei Männern, pure dal Flauto magico.
Dopo sette anni, la terza Sonata: in la maggiore, op. 69 (1808). Nel taglio quadripartito, nella elaborazione della dialettica strumentale, la Sonata op. 69, oltre ad assurgere in sé alla statura dei «capolavori» beethoveniani, si inscrive nei sensi stilistici di quel periodo che emerge nei tre Quartetti op. 59, nel Quarto Concerto op. 58 per pianoforte e orchestra, nel Concerto op. 61 per violino e orchestra, nella Quinta e nella Sesta Sinfonia (op. 67 e op. 68), nei due Trii op. 70 per pianoforte, violino e violoncello. Di qui alle ultime due Sonate per pianoforte e cello, l’op. 102, intercorrono altri sette anni; e si giunge alla sublimità dell’epoca beethoveniana, e del prodotto: dalle ultime Sonate pianistiche, verso gli ultimi Quartetti per archi.
Composte entrambe nell’agosto del 1815, le due Sonate op. 102 sono dedicate, in copertina, alla contessa Marie von Erdödy, «cara amica» di Beethoven (ma amicizia, e confidenza, dalle alterne vicende: ora però, nel 1815, in periodo di rinsaldamento). In realtà esse furono composte, come si dice, «all’intenzione» di un interprete: il violoncellista Joseph Linke (o Lincke, come egli stesso amò firmarsi), allora ospite della contessa Erdödy; componente il Quartetto Schuppanzigh già fondato dal principe Rasumowski, interprete ufficiale dei lavori beethoveniani. Tra i capolavori indiscussi dell’ultimo stile beethoveniano, l’op. 102 supera ogni strettoia formale della tradizione; approfondisce e sottilizza il discorso strumentale, anche nell’equilibrio timbrico fra i due strumenti, mediante polifonie di rara elaborazione e risultati armonici inediti o, per allora, rivoluzionari, o incompresi; affianca al rigore contrappuntistico e tecnico le più alte evasioni verso una trascendenza espressiva. Otto anni separano l’op. 69 dalle due Sonate op. 102, gli ultimi contributi beethoveniani alla letteratura violoncellistica. Lincke prestava servizio presso la contessa Anna Marie Erdödy presso la cui residenza estiva di Jedlersee Beethoven si recò verosimilmente a far visita a più riprese nell’estate 1815. Nacquero così le due Sonate (la prima al termine di luglio, la seconda all’inizio di agosto), in un clima di scherzosa amicizia testimoniato dai motteggi epistolari del compositore. E tuttavia non opere “leggere” ma di estrema densità concettuale sono quelle dell’op. 102. La destinazione a Lincke deve aver stimolato Beethoven, più che sotto il profilo delle innovazioni di tecnica strumentale, sotto il profilo della complessità compositiva. Le due Sonate op. 102, infatti, contengono una serie di caratteristiche “sperimentali” – la nudità delle linee melodiche, l’interesse per il contrappunto, il recitativo strumentale, i trilli coloristici e non ornamentali – che sono ancora sostanzialmente assenti dalla precedente produzione di Beethoven, e si ripresenteranno invece con costanza negli ultimi anni; in definitiva – con qualche schematismo – si può dire che le due ultime Sonate per violoncello inaugurino il cosiddetto «terzo periodo» beethoveniano.
La prima Sonata si articola in due soli movimenti, con due tempi veloci preceduti ciascuno da un’introduzione lenta. Nuove prospettive sono già quelle dell’Andante che funge da introduzione al primo tempo, con un intreccio polifonico denso, nitido e purissimo; nettamente contrastante appare il seguente Allegro vivace in forma sonata, dove l’aggressività fonica dei ritmi puntati e la serrata dialettica strumentale si sommano a una improvvisa mutevolezza di atteggiamenti, quale si ritrova frequentemente nell’ultimo Beethoven. Il secondo tempo si apre con un breve Adagio, un recitativo strumentale che sfocia, con un’arditezza “ciclica”, nel ritorno di frammenti melodici dell’introduzione al primo tempo. Segue, senza soluzione di continuità, un altro Allegro vivace in forma sonata di carattere però brillante e giocoso. Il breve tema iniziale diviene protagonista di inseguimenti e trasformazioni nella sezione dello sviluppo e nella mastodontica coda che chiude la composizione.

Ludwig van Beethoven – Sonata in Re maggiore op. 102 n. 2

I. Allegro con brio
II. Adagio con molto sentimento d’affetto
III. Allegro. Allegro fugato

La Sonata in re maggiore op. 102 n. 2 è in tre movimenti; secondo e terzo strettamente collegati. Il primo, Allegro con brio, è sì elaborato tematicamente, e con «drammatiche modulazioni» (Roman Vlad); con baldanzose proposte e risposte fra i due strumenti in prolungato sviluppo; in un aspetto un po’ rude e violento, irto di difficoltà tecniche; ma, più che un primo tempo di Sonata, esso appare quale Preludio, o Prologo, al vero «argomento» della Sonata stessa che è il suo sublime secondo movimento: Adagio, con molto sentimento d’affetto. Tra il Lied e la rapsodia, con il suo teso melodismo (è uno dei pochi tempi veramente, esasperatamente, «lenti» dell’ultimo Beethoven) che però si sostiene su declamate ed austere fioriture in entrambi gli strumenti, con i suoi passaggi a modo di variazioni tuttavia non denunciate, nella sua perfetta struttura interna mascherata dall’aspetto di libera invenzione fantastica, questo Adagio può darsi come una delle pagine più autenticamente appropriabili all’«ermetismo» dell’ultimo Beethoven. Tanto più, con il suo dissolvere, in breve sequenza di «pianissimi», al terzo movimento: all’esposizione, nelle quattro battute dell’Allegro distribuite fra i due strumenti, del tema dell’Allegro fugato. Famoso, e ai tempi di Beethoven e in epoche seguenti, come pagina discussa e incompresa, questo fugato è uno dei beethovenianamente più validi punti di ritrovo, e di conflitto – come ha segnalato G. Carli Ballola – «drammaticamente esasperato tra le leggi del contrappunto e le strutture armoniche e sintattiche di un linguaggio vigorosamente caratterizzato».

César Franck – Preludio, corale e fuga per pianoforte

Moderato
Poco più lento
Fuga. Tempo Iº

Svjatoslav Richter nei suoi Diari definisce questa composizione “l’unica nella sua severa sensibilità e bellezza” della quale egli si innamorò da giovane dopo averla ascoltata nella città di Odessa sotto le mani di Egon Petri.
Grande organista e illuminato didatta, César Franck, nato nel 1822 a Liegi ma vissuto sempre a Parigi, era stato assai attivo compositore fin dagli anni della giovinezza, ma la pienezza e l’originalità della sua forza creativa non si affermarono che con la maturità. Le opere che dovevano restare come maggiormente rappresentative della sua arte appartengono al numero di quelle da lui composte dopo i cinquant’anni in un fervore operoso crescente sino alla fine, avvenuta nel 1890. «Opere uniche», in genere. L’unica sinfonia, la Sonata per violino e pianoforte, il Quartetto, il Quintetto, il trittico pianistico Preludio, Corale e Fuga sono, fra le composizioni di Franck, quelle che fanno della sua arte una «presenza» viva e, diremmo, imprescindibile nel patrimonio musicale della nostra civiltà.
È curioso ma non incomprensibile il fatto che dalla prima composizione per pianoforte, le Variations brillantes sur l’air du Pré aux Clercs del 1834, passino cinquant’anni perché possiamo trovare la vera prima opera pianistica importante, Preludio, corale e fuga del 1884, seguita due anni dopo da un altro trittico, Preludio, aria e finale. Sin dalla prima esecuzione di questo lavoro, avvenuta il 25 gennaio 1885 per la Société Nationale de Musique nella interpretazione di Marie Poitevin, i giudizi furono entusiasti.
Con questa notissima composizione anche Franck paga il suo tributo a Bach, tributo non tanto alla tematica bachiana quanto al dominio della forma, alle grandi costruzioni polifoniche. Franck è uno spirito profondamente religioso ma di una religiosità ottocentesca, fatta di passione e spesso di trionfalistica retorica, ma certo è che il magistrale dominio della forma, l’unità delle idee tematiche, la costruzione polifonica, lo sfruttamento delle risorse della tastiera e il sostegno continuo di un’invenzione musicale di qualità fanno del Preludio, Corale e Fuga una delle opere pianistiche più impressionanti dell’Ottocento. All’inizio l’intenzione di Franck era quella di scrivere un Preludio e Fuga nello stile di Bach, o meglio una costruzione polifonica alla Bach poiché quello che a Franck interessava, in tutta la sua carriera di compositore, era la saldezza della forma, che potesse contenere la sua passionalità. L’idea di aggiungere un Corale venne dopo, durante la composizione dell’opera, ed esso risultò come il legame tra le altre due parti ma anche l’elemento più importante il cui spirito permea tutta l’opera e viene come esaltato nella grandiosa Fuga. Questa necessità di legame tra le varie componenti della composizione è un dato costante in tutte le opere tarde del compositore ed è anche un segno della sua adesione al tipo di costruzione germanica piuttosto che francese. Ed in effetti il nome che viene subito alla mente ascoltando quest’opera è, oltre a Bach, quello di Wagner per il cromatismo passionale e sensuale: l’equivoco di base in Franck, il suo tipo di religiosità. Anche se il tema iniziale può sembrare bachiano esso è subito stravolto e modificato dal cromatismo — così come nell’interludio del Corale — e presto prende campo l’interesse virtuosistico della tastiera che ci ricorda Liszt.

Antonín Dvořák – Quintetto per pianoforte e archi n. 2 op. 81

I. Allegro ma non tanto
II. Dumka. Andante con moto
III. Scherzo (Furiant). Molto vivace
IV. Finale. Allegro

Il Quintetto per pianoforte e archi n. 2 op. 81 di Antonín Dvorák è il risultato del tentativo di rivedere un precedente lavoro, Quintetto per pianoforte in la maggiore op. 5, del quale, insoddisfatto, addirittura ha distrutto il manoscritto dopo la sua anteprima. Quindici anni più tardi recuperò una copia della partitura da un amico e iniziò a fare le revisioni, ma poi decise di comporre un nuovo lavoro. Scritto tra il 18 agosto e l’8 ottobre del 1887 fu eseguito a Praga il 6 gennaio 1888. Oggi questo Quintetto (in un certo senso risuscitato da Svjatoslav Richter e dal Quartetto “Borodin” cento anni dopo) è riconosciuto come uno dei capolavori accanto ai “confratelli” di Schubert, Schumann, Brahms e Šostakovič.
Anche Dvořàk, come prima di lui Bedřich Smetana, a differenza dei russi, riteneva che lo spirito del canto popolare dovesse essere ricreato non copiando il popolo, bensì reinventando con la fantasia nuove melodie sul modello della musica popolare: non rifacimenti o ripensamenti basati sull’elaborazione del vero, dunque, ma stilizzazioni formali artisticamente originali. Sia nel primo Allegro ma non troppo che nel Finale Allegro l’autore mostra un’espressività appassionata, ora energica, ora lirica, oscillando tra indugi contemplativi e vigorose impennate. I due tempi centrali, Andante con moto. Dumka e lo Scherzo. Furiant, danno ampio spazio al carattere popolare. La Dumka, canto popolare russo-ucraino-slavo, una sorta di méditation narrativa di carattere elegiaco, è il fulcro dell’Andante con moto, una pagina sospesa tra pensosità e malinconia e contrassegnata dal contrasto tra la sezione lenta iniziale, poi ripresa alla fine, e l’irruzione centrale di un Vivace effervescente e aggressivo. Lo stesso procedimento, ma a parti invertite, si ripresenta nello Scherzo (Molto vivace), un baldanzoso Furiant in 3/4 festosamente danzante e a tratti sincopato, interrotto dalla pacata staticità del Trio (Poco tranquillo).

Commento a cura di Valerij Voskobojnikov