“Il panteista mistico” e ancora “il monaco gotico” sono alcune definizioni del grande compositore austriaco Anton Bruckner, nato 200 anni fa. La sua formazione professionale è stata molto lenta, ma assai solida; come organista è stato riconosciuto molto prima ed ha retto a Parigi, gloriosamente, il confronto con un altro famoso organista ed improvvisatore come César Franck. Ma il vero successo di compositore gli è arrivato solo nel 1884 con la sensazionale esecuzione della sua Settima Sinfonia sotto la direzione di Arthur Nikisch, uno dei suoi allievi preferiti e più virtuosi. Leggendaria era la capacità lavorativa di Anton Bruckner: pur insegnando quaranta ore a settimana egli continuamente componeva e soprattutto riscriveva le sue opere, soprattutto in età matura, tra i quaranta e i settant’anni. I critici hanno calcolato che in realtà bisognerebbe parlare non di nove o undici sue Sinfonie, bensì di diciotto, create nel corso di trent’anni, talmente erano diverse l’una dall’altra nelle varie versioni e revisioni. A questa conclusione erano giunti i suoi redattori Robert Haas e Leopold Nowak preparando la sua opera omnia. Alla personalità di eccezionale modestia e di fede quasi ingenua è necessario aggiungere la ferrea volontà del musicista, che, nato in una famiglia piuttosto povera a Linz, riuscì a trasferirsi a Vienna, città della grande musica, e fu apprezzato da Wagner, da Liszt, da Berlioz.
È del tutto logico e legittimo il confronto tra Schubert e Bruckner, che il programma di oggi propone. Riporto un’interessante definizione del musicologo Ivan Sollertinskij, grande amico di Šostakovič, al quale egli fece “scoprire” sia il genio di Mahler che quello di Bruckner: «Bruckner è Schubert incatenato nell’armatura delle sonorità degli ottoni, appesantito dagli elementi della polifonia bachiana, della struttura tragica dei primi tre movimenti della Nona di Beethoven e dell’armonia “tristaniana” di Wagner». Nella storia musicale dell’Austria e di Vienna si succedono periodi di vera e propria gloria, da Haydn a Mozart a Beethoven e Schubert, e di decadenza come la padronanza dei Valzer di Strauss con tutta la loro bellezza. Il trasferimento di Brahms dalla Germania a Vienna ha segnato di nuovo un punto di ripresa. Ma il vero successore della grande tradizione viennese fu senz’altro Anton Bruckner, negli ultimi decenni del XIX secolo. I tratti in comune che troviamo in Schubert e in Bruckner sono i loro stretti legami con la realtà austriaca, con l’intonazione e il ritmo dei canti e delle danze nazionali; li unisce la natura dell’Austria: i boschi, le montagne, i laghi. Da qui vengono le pagine riflessive e liriche, la famose “divine lungaggini” a detta di Robert Schumann.
Franz Schubert Trio per archi per violino, viola, violoncello D. 471
Allegro
Le opere “incompiute” di Schubert: certamente la più famosa composizione “incompiuta” di Franz Schubert è la sua Sinfonia in Si minore n.8, in due movimenti. Da tanti anni i musicologi discutono e propongono le varie ipotesi sulle cause che potrebbero spiegare la decisione del grande musicista di fermarsi. Ma a quanto risulta, da quando Schubert “scelse la libertà” andando via da casa, iniziò la stesura di diverse composizioni, lasciate poi incompiute: le sonate per pianoforte e diverse opere da camera. Molte di queste sono segnate da coraggiose trovate nonostante la giovanissima età del compositore. Ad esempio, il Quartetto in Do minore catalogato come D. 703 del 1820, che con la sua musica inquieta e quasi scatenata ricorda persino il famoso Lied Erlkönig; di questo quartetto è rimasto solo il primo tempo veloce che spesso viene proposto in concerto. È rimasta solo in forma di abbozzi la Sonata per pianoforte in Fa diesis minore D. 571 del 1817 che ricorda vagamente i Notturni di Chopin e persino la Sinfonia “Incompiuta”. Prometteva molto bene la drammatica Sonata in Do maggiore D. 840, soprannominata “Reliquie”, del 1825, molto lapidaria nella fattura, con forti contrasti e simile al Momento musicale, sempre in Do maggiore. In questa Sonata Schubert per la prima volta prova a scrivere musica di carattere epico ma qualcosa gli ha impedito di finire il terzo movimento ed il finale. Oltre alle opere molto note composte nell’ultimo anno della sua brevissima vita, nel 1828,
Schubert ha “buttato giù” gli schizzi per la Sinfonia in Re maggiore D. 936a, dove si scorge un sapore di profonda novità. C’è ancora una Sinfonia incompiuta in Mi maggiore D. 729, iniziata nel 1821 con un bellissimo tempo lento rintracciabile in un unico schizzo. Non a caso sulla tomba di Franz Schubert il suo amico poeta Franz Grillparzer ha scritto questo epitaffio: «Qui la musica ha seppellito un ricco tesoro, ma ancor più belle speranze»…
Il Trio per Archi n. 1 in Si bemolle maggiore D. 471 è datato 1816, un anno particolare della vita del compositore, in un periodo che lo studioso Alfred Einstein ha definito «l’anno dell’indecisione»: Schubert tentò invano di ricoprire il ruolo di direttore musicale in una scuola e soffrì la delusione per la freddezza di Goethe nei suoi confronti; questi accadimenti sicuramente ebbero una ripercussione sulle opere e, soprattutto nel campo della liederistica, Schubert sembrava concentrato verso un obiettivo preciso. Nell’ascoltare questa breve pagina sembra che egli non fosse a conoscenza delle opere di Beethoven tanta è la semplicità di costruzione della forma sonata di quest’unico movimento. Poche notizie si hanno su questo Trio, e soprattutto sui motivi che indussero Schubert ad abbandonarne la composizione dopo il primo movimento (esistono anche trentanove battute di quello che sembra essere un Andante). Non si conoscono nemmeno le ragioni che indussero Schubert a non completare questo lavoro, anche se è plausibile la tesi secondo la quale il compositore si sia dedicato totalmente alla composizione della Quinta Sinfonia che condivide con il Trio la tonalità d’impianto in Si bemolle maggiore. Definito da Einstein “molto grazioso, mozartiano, fluente e melodico, ma nulla di più”, il primo movimento, che, scritto in una regolarissima forma sonata, si segnala per le innegabili influenze mozartiane evidenti già nel primo tema; presenta, però, uno sviluppo ampio ed elaborato nel quale si intravedono elementi della futura arte schubertiana, come i frequenti cambi di armonia.
Anton Bruckner Quintetto per due violini, due viole e violoncello WAB 112
Gemäßigt
Scherzo: Schnell. Trio: Langsamer
Adagio
Finale: Lebhaft bewegt
Considerato nei paesi “tedeschi” il quarto grande B, dopo Bach, Beethoven, Brahms, il compositore austriaco Anton Bruckner, iniziando il Quintetto in Fa maggiore nel 1878, si promise di non travalicare i confini della scrittura per questo tipo di strumentazione, quindi di non scrivere una “sinfonia per quintetto d’archi”, e cercò effettivamente una maggior chiarezza dei temi e della loro elaborazione ma, malgrado ciò, gli esempi classici sono distanti: la musica scorre seguendo più il respiro del suono che non l’ordine architettonico delle forme. Il movimento più felice è l’Adagio, molto ricco polifonicamente e pieno di timbri e melodie affascinanti. È interessante notare le indicazioni dell’autore, naturalmente in tedesco: spesso sottolinea “lang gezogen”, “sehr zart”, “breit”, “ausdrucksvolle” e poi in italiano “portato sempre”, cioè esigendo agli interpreti di suonare senza fretta, articolare e pronunciare con la massima calma le sue lunghe frasi, con il suono prevalentemente pieno e caldo. Lo Scherzo è condotto dal primo violino, nel Trio viene usato il ritmo di un Ländler. La prima stesura dello Scherzo sembrò troppo difficile al committente del brano Joseph Hellmesberger, che chiese a Bruckner di comporre un Intermezzo che attualmente viene eseguito solo come una pagina indipendente e che rappresenta l’unico altro contributo dell’autore alla letteratura per quintetto d’archi. Nel Finale, che si conclude in modo brillante, vengono rispettate le regole della forma classica di sonata.
Commento a cura di Valerij Voskobojnikov