Adagio
Allegro giusto
Nonostante Franz Schubert sia vissuto appena 31 anni, ha lasciato un vastissimo catalogo che comprende sinfonie, messe, un numero incredibile di Lieder, molte sonate per pianoforte e ancora numerosissime danze per questo strumento, splendidi quartetti d’archi e altre opere da camera, mentre mancano completamente concerti per solisti ed orchestra. Qualcuno ipotizza che il genio austriaco avesse una vera e propria avversione verso il virtuosismo (anche se la sua Wanderer Fantasie non è uno scherzo per i pianisti e non lo sono neppure alcune delle sue Sonate!), almeno nell’usanza che questo genere assunse nell’Ottocento: un solista antagonista dell’orchestra, che doveva sviluppare una tecnica virtuosistica fino a pochi anni prima neppure immaginabile. Su richiesta del fratello violinista Ferdinand, egli compose un Konzertstück in Re maggiore per violino e orchestra, formato da un Adagio e da un Rondò; poco dopo, rispettivamente nel giugno 1816 e nel settembre 1817, compose altri due pezzi per violino e archi, il Rondò in La maggiore, oggi in programma, e la Polonaise in Si bemolle maggiore.
Il Rondò si articola in due sezioni: un Adagio introduttivo e un Allegro, che è poi un Rondò vero e proprio. L’Adagio iniziale attacca con il “tutti” dell’orchestra e alla dodicesima misura entra in campo il violino solista che s’impone all’ascolto per il suo stacco spigliatamente virtuosistico, ma anche espressivamente elaborato, con scale, arpeggi, passaggi di terzine e rapide figurazioni ritmico-melodiche. Il tema dell’Adagio è schubertiano nel senso più puro e immediato del termine. Invece il tema del Rondò, ben distinto da quello dell’Adagio, è caratterizzato da un gioco di terzine. La frase gioiosa e vivace viene ripresa e ampliata da una serie di progressioni ritmiche, secondo la tecnica dell’Allegro in forma di Rondò.
(Una curiosità storica: ad aiutare Schubert a superare la sua presumibile avversione verso la forma del concerto per pianoforte e orchestra, ci pensò nel XX secolo il collega sovietico Dmitrij
Kabalevskij il quale provò a trascrivere la famosa Fantasia in Fa minore a quattro mani per pianoforte solista e orchestra. Esiste negli archivi della RAI, ma ormai anche in Rete, la registrazione effettuata dal grandissimo Emil Gilels in Italia con l’orchestra della RAI a Milano sotto la direzione di Franco Caracciolo).
Wolfgang Amadeus Mozart Sinfonia Concertante per violino, viola e orchestra in Mi bemolle maggiore K. 364
Allegro maestoso
Andante
Tempo di contraddanza
Non tutto l’odioso e obbligato ritorno alla nativa Salisburgo portò sfortuna a Mozart: nel 1779, dopo il soggiorno a Mannheim e a Parigi, egli scrive la Sinfonia concertante per violino e viola K. 364, un’opera di straordinaria profondità, brio virtuosistico e bellezza melodica raramente raggiunte in precedenza. Come notano gli storici studiosi di Mozart, come Alfred Einstein, qui l’orchestra è estremamente attiva, ognuno parla la propria lingua – oboi, corni, archi, le viole sono divise in due e per questo motivo il gruppo degli archi ha un suono più caldo. Nello stupendo e drammatico Andante tra i due solisti si svolge una vera e propria conversazione, piena di profondo sentimento, commovente in certi passaggi come quando la viola, per rispondere alla lamentela trattenuta del violino, ci introduce nel morbidissimo Mi bemolle maggiore. Il Finale in Tempo di contraddanza è pieno di sorprese; è curioso osservare che Mozart chiese ai violisti di accordare lo strumento mezzo tono più alto per ottenere un suono più luminoso e caldo.
Per ricordare la magnifica orchestra di Mannheim, Mozart cita all’inizio una delle sinfonie di Jan Stamitz, caposcuola di quella città tedesca. L’orchestra locale era soprannominata “esercito dei
generali” per la bravura dei singoli componenti. Probabilmente l’idea di coinvolgere ben due solisti nella sua Sinfonia concertante fu suggerita a Mozart dalle opere scritte appositamente per questi “generali”. Cito ancora il solito Bernhard Paumgartner: «Il problema del duo solistico viene affrontato e approfondito più ampiamente nella Sinfonia concertante per violino e viola K. 364, lavoro singolare e geniale, in forma di concerto vero e proprio. Lo strumentale originalissimo e amorevolmente curato si muove in quella gamma di colori morbidi tenui che diverrà poi caratteristica di molti altri lavori nella stessa tonalità di Mi bemolle maggiore. Ricordiamo gli oboi gravi del secondo tempo e il costante impiego delle viole divise. Se i due primi tempi della Sinfonia concertante si impongono per intensità e severità espressiva, il finale, gentile e leggero, è un capolavoro di architettura musicale».
Ludwig van Beethoven Sinfonia n. 8, op. 93
Allegro vivace e con brio
Allegro scherzando
Tempo di Menuetto
Allegro vivace
Beethoven cominciò a comporre l’Ottava Sinfonia nel 1811, e la completò nell’estate del 1812, durante i soggiorni nelle stazioni termali di Teplitz (in cui avvenne il celebre incontro con Goethe, tanto ammirato dal musicista), Karlsbad e Linz. È molto interessante apprendere le circostanze della prima esecuzione pubblica (quella privata ebbe luogo nell’aprile 1813 nella residenza dell’Arciduca Rodolfo) della nuova Sinfonia che avvenne il 27 febbraio 1814 nella grande sala del Ridotto di Vienna. Il concerto, dedicato interamente a musiche di Beethoven, tra cui la Settima Sinfonia e La vittoria di Wellington, detta anche La Battaglia di Vittoria (titolo originale Wellington Sieg oder die Schlacht bei Vittoria op. 91), una pagina pomposa e roboante con inserimenti dei temi degli inni inglesi “Rule Britannia” e “God save the King” e con effetti che riproducevano i colpi di cannone e i rulli di tamburo. L’idea era di celebrare la sconfitta delle truppe francesi avvenuta per merito del generale Wellington. Il promotore del concerto era stato lo studioso di problemi acustici Johann Nepomuk Mälzel, inventore del metronomo e creatore di singolari macchine musicali. Mälzel riuscì ad organizzare un programma così particolare in quanto si era assicurato l’affetto di Beethoven promettendogli di costruire un apparecchio infallibile contro la sordità. Questi volle rendergli omaggio inserendo nel secondo movimento dell’Ottava Sinfonia uno spunto tematico che ricordasse l’oscillazione del metronomo, ripreso da un canone scherzoso dello stesso Beethoven, elaborato sulle parole: «Ta-ta-ta, caro Mälzel, addio…».
Ma non finisce qui la descrizione di questa “prima” assai originale: naturalmente il brano che suscitò i maggiori applausi del pubblico fu La vittoria di Wellington, anche per la rinomanza dei maestri sparsi nell’orchestra a dar lustro alla celebrazione: da Antonio Salieri che dirigeva alcuni strumentisti collocati sopra una galleria laterale che avevano il compito di imitare le cannonate, a Ignaz Schuppanzigh, amico di Beethoven e membro del Quartetto Razumovskij, dai violinisti Ludwig Spohr e Josef Mayseder, al famoso contrabbassista italiano Domenico Dragonetti, dal giovane compositore Jan Nepomuk Hummel che batteva la grancassa, a Giacomo Meyerbeer che suonava i piatti (sembra con poca soddisfazione di Beethoven).
L’Ottava Sinfonia non fu apprezzata adeguatamente,come riferì Carl Czerny, e dovette aspettare diversi anni prima di essere ben compresa nel suo elegante e misurato classicismo. Dopo la forza, l’energia, e le immagini di lotta contro il Destino delle Sinfonie precedenti, nell’Ottava i “critici” hanno sentito il ritorno ai modelli classici, alla vecchia danza di Minuetto e non hanno voluto riconoscere un nuovo umorismo, ironia e gioco, nascosti nella partitura elaboratissima, intelligente e matura. A parte Schumann e Wagner, che apprezzavano l’Ottava Sinfonia, questa effettivamente è tuttora meno eseguita ed apprezzata di altri lavori sinfonici. Qualcuno l’ha definita “Sinfonia del buon umore”. Personalmente, il tema del primo movimento Allegro vivace e con brio mi ricorda il clima pastorale della Sesta. Ma certamente l’umorismo “meccanico” dell’Allegro scherzando e poi la parodia del Minuetto dimostrano la validità di tale definizione. Questo spirito, che spazia da Haydn fino a Rossini, possiamo ritrovarlo anche nel
conclusivo Allegro vivace.
Commento a cura di Valerij Voskobojnikov