Domenica 8 settembre – ore 18.30

Teatro dei Vigilanti "Renato Cioni" | Portoferraio

Quartetto Indaco – Beethoven, Puccini, Mendelssohn
100 anni dalla morte di Giacomo Puccini

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Informazioni

Quartetto Indaco
Eleonora Matsuno, Ida Di Vita violini | Jamiang Santi viola | Cosimo Carovani violoncello
L. van Beethoven Quartetto per archi n. 16, op. 135
G. Puccini Crisantemi elegia per quartetto d’archi SC 65
F. Mendelssohn-Bartholdy Quartetto per archi op. 44 n. 2

Ludwig van Beethoven Quartetto per archi n. 16 op. 135 in Fa Maggiore

Allegretto

Vivace

Lento assai, cantante e tranquillo

Grave ma non troppo tratto – Allegro

 

L’opinione diffusa, e abbastanza fondata, sugli ultimi quartetti di Beethoven, è che non siano di facile ascolto: essi nascondono infatti una specie di “universo sfingeo” e un denso contenuto filosofico, espresso con i mezzi di straordinaria modernità ricercati negli strumenti musicali ed “inventati” dal geniale orecchio interiore di un compositore ormai completamente sordo e lontano dalla realtà. Nel confronto con altre composizioni per quartetto d’archi (op. 127, 130, 131, 132, più la Grande Fuga) il Quartetto n. 16 op. 135 in Fa maggiore sembrerebbe di minore complessità, in quanto, scritto sei mesi prima di morire, si svolge – quasi per intero – nel clima di serenità tipico dell’ultima produzione, si pensi alla Missa Solemnis e alla Nona Sinfonia in particolare. Famoso non solo per il terzo movimento lento, aggiunto in un secondo momento, la cui perfezione è sorprendente persino per il Beethoven “maturo”, ma anche per il curioso Finale, preceduto da una epigrafe musicale (probabilmente da non eseguire) posta all’inizio del Grave: «Muss es sein? Es muss sein!» (Deve essere? Deve essere!).

Ci occuperemo tra poco dell’aneddoto collegato a questa epigrafe, per ora è importante sottolineare che il significato di queste poche battute suona in modo incredibilmente attuale: il grande scrittore ceco Milan Kundera, nel suo romanzo L’insostenibile leggerezza dell’essere (del 1984!) la adopera per giustificare le scelte della vita del suo protagonista, vittima della persecuzione politica a Praga dopo l’intervento sovietico nel 1968. Beethoven utilizza questo pretesto per nascondere nel Finale ciò che lui stesso indica come “Der schwer gefasste Entschluss” (“Una decisione presa con difficoltà”) riportandolo sul manoscritto sopra all’epigrafe.

Del resto, anche la poetessa Anna Achmatova così giustificò la propria ispirazione:

«Non mi servono le odi in armi

o gli incanti di oziose elegie.

Invece prediligo i versi abnormi,

non proni alle leggi stantie.

Se voi sapeste da quale lordume

cresce il verso, senza alcuna vergogna,

come presso al recinto il soffione

e l’atrepice e la bardana!

Urla irose, fresco odore di pece,

strana muffa al muro che non va via…

e già suona il verso lieve, audace,

per la gioia vostra e mia.»

 

Gli ultimi anni della vita di Beethoven furono anni gravi. Ai dolori causati dalla malattia si aggiunse l’ingratitudine dell’amatissimo nipote Karl, al quale il compositore era legato in maniera quasi patologica, chi gli stava attorno in quel momento testimonia che avesse un comportamento tutt’altro che “normale”. Per sistemare i rapporti molto difficili con il fratello Johann e sua moglie, Beethoven partì per Gneixendorf nei pressi di Vienna, dove si fermò per due mesi. Qui prese a scrivere il nuovo Quartetto. Considerando le circostanze colpisce ancor di più il carattere “pacificato” di questa ultima opera cameristica: un grande compositore (lo si vede anche dalla storia creativa di Mozart) non scrive solo ispirandosi alla realtà e sicuramente trova la soluzione e la pace interiore nel processo creativo. Soltanto in certi momenti, ad esempio, nello Scherzo, cioè nel secondo movimento, si sentono gli echi della collera e della disperazione provate da Beethoven in quel periodo, ma prevalgono un equilibrio straordinario e la assoluta perfezione nella costruzione della forma del Quartetto n.16, che di nuovo contiene quattro movimenti al contrario dei precedenti tre quartetti. Qui l’Allegretto iniziale appare leggero, ironico e “arioso”: il tema principale contiene il tipico gioco di domanda e risposta (viola – primo violino poi gli altri a seguire) che continua con l’esposizione in unisono. Tutto il movimento è costruito sull’intreccio polifonico, semplice e perfetto; abbiamo a che fare con lo schema intellettuale su cui si basa il pensiero del compositore e con la sua incredibile maestria

nell’evoluzione di un materiale così scarno e leggero. Il secondo movimento è un Vivace, non chiamato “Scherzo” anche se in realtà lo è: al principio anche un po’ scuro, pian piano diventa meno “minaccioso” e più divertente con i suoi ritmi danzanti sincopati e le sonorità un po’ dissonanti. Ed ecco che accade qualcosa di eccezionale, qualcosa di sconosciuto persino alle opere di Beethoven: il primo violino affronta una melodia fatta di salti in tre ottave che si ripete ossessiva per ben cinquanta volte! L’effetto è quello di una furia, della manifestazione di forze scatenanti. Il successivo Lento assai, cantante e tranquillo viene definito in uno degli schizzi come “un dolce canto di pace”, e suona come l’addio alla vita del compositore, colmo di tristezza ma non d’angoscia. Il Lento è stato scritto quando il Quartetto era già pronto, un dettaglio importante. Costruito sulla forma A-B-A contiene tre episodi, dal tema principale poggiato sull’armonia immobile di Re bemolle maggiore, si passa al secondo, reso frammentario da continue pause. Un episodio più lento in Do diesis minore, esitante, a frasi brevi e sussultanti, che ci ricorda l’Arioso dolente della Sonata per pianoforte op. 110, interrompe il corso della prima effusione. Essa ritorna poi più animata nel suo movimento polifonico per frammentarsi infine nel fraseggio spezzato del primo violino, sostenuto dai tre strumenti inferiori con una grande delicatezza, si spegne ritardando gradatamente. Libertà ritmica e ricca polifonia colpiscono in questa musica, che sembrerebbe scritta in pieno romanticismo. L’ultimo movimento Grave ma non troppo tratto – Allegro è il più difficile da interpretare: i due Allegri sono costruiti sul tema del “Es muss sein!” introdotti dai due Gravi “Muss es sein?”, due mondi apparentemente estranei legati solamente da una relazione intervallare (terza discendente e quarta ascendente nel Grave e l’inverso nell’Allegro). 

Vediamo la spiegazione storica di cui si dispone: nel 1825 un giovane violinista austriaco Karl Holz divenne il segretario personale di Beethoven, oltre ad essere il secondo violino nel Complesso Schuppanzigh. Ai suoi appunti dobbiamo la spiegazione dell’epigrafe: un ricco viennese amante della musica, l’Hofkrieger (cioè agente presso la Corte) Ignaz Dembscher (circa 1776-1838) non era riuscito ad assistere alla prima esecuzione del Quartetto op. 130 dal Complesso Schuppanzigh, aveva quindi tentato di farlo eseguire privatamente presso di sé da altri musicisti provando a procurarsene gli spartiti. Beethoven in principio andò in collera, poi finì col chiedere in via di accomodamento una somma di 50 fiorini come indennizzo per Schuppanzigh. Le parole con cui la richiesta venne accolta da Dembscher: “Wenn es sein Muss!” (Se così deve essere!), interpretate con un senso di fatalità umoristica avrebbero dato al maestro il primo spunto del canone scherzoso WoO 196 in oggetto: “Es muss sein! heraus mit den Beutel!” (Così deve essere! fuori con la borsa!). La domanda cruciale nell’introduzione e la risposta decisa e gioiosa nella parte principale del Finale assomigliano al secondo tema che ha

carattere di marcia: esso irrompe all’improvviso nello sviluppo, mentre nella ripresa il tema della domanda suona con drammaticità estrema. Il Quartetto scivola poi verso una conclusione brillante ed umoristica con un sorprendente pizzicato e una rapida chiusa.

 

Giacomo Puccini I Crisantemi elegia per quartetto d’archi SC 65

Andante mesto

 

Nella cultura musicale a noi contemporanea il nome di Giacomo Puccini viene collegato esclusivamente a titoli d’opere note a tutti. Quanto è rimasto delle sue composizioni non destinate alla scena viene considerato un affare per specialisti: la Messa giovanile, i tre pezzi per orchestra ugualmente giovanili, e inoltre una dozzina di canzoni. A questa “produzione secondaria” appartengono anche i pochi pezzi composti per quartetto d’archi, tutti nati durante il periodo di studi di Puccini o non molto tempo dopo; ossia prima che egli diventasse, dopo la prima rappresentazione di Manon Lescaut, nel 1893, un operista di fama mondiale.

Il più noto di questi è un pezzo tardo: l’elegia piena di sentimento Crisantemi. Fu composta subito dopo la morte – il 18 gennaio 1890 – del quarantacinquenne Amedeo di Savoia, secondo figlio molto popolare del re d’Italia Vittorio Emanuele II, e venne eseguita per la prima volta già nella settimana seguente a Milano. Puccini evidentemente non aveva dato all’inizio grande importanza a questo lavoro, che invece fu subito stampato da Ricordi, poiché nell’abbozzo lo indica solo come “Breve improvviso”. Ma in seguito (forse anche grazie al rapido successo ottenuto da queste composizioni) impiegò il materiale musicale di Crisantemi nell’atto finale della sua Manon Lescaut, alla quale egli già a quel tempo stava lavorando; questo ha fatto sopravvivere fino ad oggi Crisantemi e la rende interessante come via d’accesso al laboratorio compositivo di Puccini. 

 

Felix Mendelssohn-Bartholdy  Quartetto per archi in Mi minore op. 44 n. 2 

Allegro assai appassionato

Scherzo. Allegro di molto

Andante

Presto agitato

 

Per l’ennesima volta, nella presentazione dei nostri concerti, ricordo dello straordinario e precocissimo talento di questo compositore tedesco, per fortuna spesso presente nei programmi del Festival. Felix Mendelssohn si apprestava a scrivere i quartetti d’archi fin dall’infanzia: all’età di 12 anni egli componeva le fughe per quartetto, mentre a 14 anni si era già cimentato in questo difficile genere classico decidendo però di non pubblicarlo. Il primo dei sei quartetti “adulti” Mendelssohn, completato il 26 ottobre 1827, quando compì 18 anni, oggi è noto come il Quartetto n. 2. Trascorsero otto anni prima che tornasse ai quartetti d’archi: terminato il 18 giugno 1837, il Quartetto op. 44 n. 2 ci presenta un Mendelssohn del tutto diverso. Non più attratto da sperimentalismi o dall’inclusione di parti insolite, di recitativi o di temi provenienti dalle canzoni. Come prima la sua musica si svolge nei tempi vivaci, ma in questo caso il tempo scelto si mantiene durante tutto il movimento. Il nuovo Quartetto è più severo e più classico nella struttura rispetto ai due lavori precedenti in questo genere, ma l’energia qui è concentrata al massimo. Nel primo Allegro assai appassionato danzano un oceano di sentimenti, sull’accompagnamento sincopato scorrono infinite bellissime melodie affannate oppure trasformate in passaggi veloci e leggeri, come poi in tutto lo Scherzo Allegro di molto con un disegno ritmico assai originale. È ben noto che soprattutto negli Scherzi Mendelssohn trovi il proprio punto forte, lì risiede il carattere più aereo, più trasparente, più volatile. Il successivo Andante, una specie di Romanza senza parole, reca sulla partitura un’indicazione, una richiesta precisa del compositore ventottenne: “Dieses Stück darf durchaus nicht schleppend gespielt werden” (“Questo pezzo non dev’essere suonato troppo lentamente”). Nel Presto agitato conclusivo infuria una vera tempesta, più simile alla disperazione.

I Quartetti d’archi hanno natura autobiografica, sono legati a persone care al compositore: i tre Quartetti op. 44 nascono nel periodo felice della sua vita, poco dopo il matrimonio con Cécile Jeanrenaud, conclusi in rapida successione negli anni 1837-1838 in questo ordine: n. 2, n. 3, n. 1, oggi sono opere ingiustamente neglette. Per la loro ampiezza, originalità di invenzione, e ancor di più per la maestria nella costruzione delle frasi, per la tecnica della forma, meriterebbero nel repertorio della musica da camera ben maggiore attenzione. La prima esecuzione del Quartetto in Mi minore ebbe luogo grazie a Ferdinand David presso la Gewandhaus di Lipsia ed ebbe grande successo. A quel tempo era forse il più popolare di tutti i suoi sei Quartetti per archi.

 

​Commento a cura di Valerij Voskobojnikov