Friday, September 6 – 6.30 pm

Teatro dei Vigilanti "Renato Cioni" | Portoferraio

Enrico Pace – Festival Soloists – Erica Piccotti – Paolo Bonomini – Ligeti, Strauss, Fauré
100 years since the death of Gabriel Fauré

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Info

Enrico Pace piano | Chiara Sannicandro violin | David Quiggle viola | Erica Piccotti, Paolo Bonomini cellos
G. Ligeti Sonata for cello solo (1948-1953)
R. Strauss Sonata for cello and piano op. 6
G. Fauré Quartet for piano and strings n. 1, op. 15

György Ligeti Sonata per violoncello solo (1948-1953)

Dialogo

Capriccio

 

Il nome di questo grande compositore ungherese ed austriaco non viene mai pronunciato in modo corretto: “Diord” (con la lettera “d” al posto della “g” iniziale), con accento sempre sulla prima sillaba “Ligeti”, anche se il suo vero cognome era Auer. Siccome in tedesco “Aue” significa “prato” suo zio era Leopold Auer, grande violinista ed amico di Čajkovskij (al quale il compositore russo inizialmente dedicò il Concerto per violino e orchestra), una volta trasferiti i genitori in Ungheria, la famiglia cambiò il cognome traducendolo in ungherese e diventando appunto Ligeti, in quanto in ungherese significa “prato”.

Sopravvissuto alla repressione nazista e sovietica (lui e sua moglie fuggirono a piedi dalla loro nativa Ungheria dopo la brutale repressione russa del 1956), Ligeti (nato nel 1923) è un artista ferocemente individualista, con scarsa pazienza per gli “ismi” controversi della musica nella seconda metà del XX secolo. «Odio tutte queste semplificazioni pseudo-filosofiche. Odio tutte le

ideologie», disse Ligeti in un’intervista del 1986. «Ho certe immaginazioni e idee musicali. Non scrivo musica in modo ingenuo. Ma immagino la musica così come suona, in modo molto concreto. La ascolto nel mio orecchio interiore. Poi cerco un certo sistema, una certa costruzione. È importante per me, la costruzione. Ma so sempre che è una seconda cosa, non è un fattore primario. E non penso mai in termini filosofici, o mai in termini extra-musicali.

Sebbene nato in una famiglia ebrea che includeva il grande violinista e pedagogo ungherese Leopold Auer, Ligeti si avvicinò alla musica tardi, iniziando le lezioni di pianoforte all’età di quattordici anni. Gli impulsi modernisti nell’arte erano un anatema per le dittature nazista e comunista, e durante la sua formazione accademica Ligeti aveva poca conoscenza della maggior parte degli sviluppi musicali contemporanei oltre ai pezzi nazionalisti di Béla Bartók e Zoltán Kodály, che non a caso sono compositori che hanno anche contribuito con pezzi significativi al repertorio della musica per archi solisti senza accompagnamento.

Ligeti era entrato al conservatorio di Kolozsvár nel 1941. Dopo la guerra, riprese gli studi all’accademia di musica di Budapest, dove si innamorò segretamente di una delle studentesse di violoncello. Per lei scrisse un singolo movimento, un dialogo musicale di melodie ardenti e lunghe. Poiché Ligeti non rivelò mai il suo affetto, l’idea di un dialogo per un singolo strumento non è così contraddittoria come potrebbe sembrare: la conversazione era tutta nella sua immaginazione. «Ho tentato in questo pezzo di scrivere una bella melodia, con un tipico profilo ungherese, ma non una canzone popolare… o solo la metà, come in Bartók o in Kodály – in realtà più vicina a Kodály», disse Ligeti molto più tardi. In ogni caso, la fonte del suo amore non

eseguì mai l’opera. Nel 1953 Ligeti incontrò un’altra violoncellista, Vera Dénes, che gli chiese un pezzo. Decise di comporre un movimento veloce per completare il suo dialogo esistente, creando una breve sonata in due movimenti. Chiamò questo movimento Capriccio, in riferimento ai Capricci per violino solo di Nicolò Paganini. Il movimento porta il violoncello ai limiti del virtuosismo – dovrebbe essere suonato il più velocemente possibile, ha detto il compositore – in uno stile chiaramente modellato sui virtuosismi ungheresi di Bartók. Le autorità dell’Unione dei compositori ungheresi consentirono solo un’unica esecuzione radiofonica dell’opera. Ligeti archiviò il pezzo; nei suoi primi anni in Occidente ignorò gran parte della musica che aveva composto in quello che chiamava il suo stile “preistorico”. La Sonata per violoncello non ebbe la sua prima esecuzione in concerto fino al 1983 e non fu pubblicata fino al 1990.

 

Richard Strauss Sonata per violoncello e pianoforte op. 6 

Allegro con brio

Andante ma non troppo

Finale. Allegro vivo

 

Uno dei massimi ammiratori del talento di Richard Strauss, Romain Rolland (scrittore che ha dedicato molto tempo alla storia della musica), una volta gli ha dato questa valutazione: «Possiede una volontà eroica, che conquista, passionale e potente fino alla grandezza. In questo consiste la sua unicità. In lui si sente la forza che domina la gente. Questi tratti fanno di lui il successore di una parte dei pensieri di Beethoven e di Wagner. Ma nello stesso tempo fanno di lui uno dei migliori poeti della musica tedesca…». Si tratta di un gigante che in 85 anni ha composto opere liriche come Salome, Elektra, Il cavaliere della rosa, Ariadne auf Naxos, La donna senz’ombra, Intermezzo per citare alcune; opere sinfoniche senza le quali il repertorio mondiale non è immaginabile: Aus Italien op. 16, Morte e Trasfigurazione, Till Eulenspiegel, Così parlò Zarathustra, Don Chisciotte, Vita d’eroe ecc., senza scordare gli Ultimi Quattro Lieder, la Burlesca per pianoforte e orchestra e vari Concerti per solisti e orchestra. Vale la pena di ricordare la sua straordinaria precocità (come quella di Mozart, di Schubert, di Mendelssohn – aggiungo anche quella di Dmitrij Šostakovič) della quale si parla poco: a sei anni scriveva le sue prime composizioni per pianoforte e il suo primo Lied, a otto il primo lavoro orchestrale, a undici la prima composizione da camera, e a dodici firmava la Festmarsch per orchestra a cui attribuiva il numero d’opera 1.Tutto ciò senza considerare le numerosissime altre composizioni, come la Sinfonia in Re minore eseguita a Monaco il 14 marzo 1880, a cui

non venne assegnato il numero d’opera. Altrettanto sorprendente la carriera di direttore d’orchestra: assunto nel 1885 dalla Cappella di Meiningen su segnalazione di Hans von Bülow e battendo concorrenti che si chiamavano Felix Weingartner e Gustav Mahler, nel 1886 Strauss diventava, nella Cappella, il primo direttore, succedendo a Bülow stesso. Stranamente alla musica da camera Strauss si dedicò prevalentemente da giovanissimo creando due Sonate per violoncello e per violino e pianoforte e mantenendo in questo ramo la fedeltà solo nel campo della liederistica: qui egli ancora non è “il possessore” delle anime umane, come lo vide Rolland, quanto un romantico e fantastico “pittore”. 

La Sonata per violoncello e pianoforte subì molti rifacimenti ed il lavoro su di essa richiese quasi tre anni. Come risultato abbiamo una delle opere romantiche più importanti di tutta la musica tedesca della fine dell’XIX secolo. Dedicata al violoncellista ceco Hanuš Wihan, il suo primo interprete a Norimberga l’8 dicembre 1883, con la pianista Hildegard von Königsthal, questa di Strauss è una delle tipiche Sonate del repertorio che danno grande soddisfazione ai concertisti, per l’alto grado di virtuosità tecnica e per la calda comunicatività espressiva. Quest’opera è stata definita un distillato stilistico panromantico che unisce Schumann, Mendelssohn e Brahms. Effettivamente, a tali classici del romanticismo andavano allora le giuste attenzioni straussiane (il wagnerismo non lo aveva ancora preso). E la Sonata deriva forse più da Mendelssohn nell’aspetto espressivo; dai due altri grandi compositori nelle ambizioni del discorso e della fattura. Ma personalissimo e inconfondibile è il piglio baldanzoso, prettamente straussiano, che si impone fin dall’avvio del primo tempo, Allegro con brio, quasi o già “dongiovannesco”: eroici accordi del violoncello, opposti all’energica ed elastica frase del pianoforte; cui segue un altro tema, aggraziato, che giunge ad un affascinante pathos e, infine, alla chiusa declamatoria. Nel pathos, però, molto più contenuto ed intimo appare il secondo movimento, Andante ma non troppo, dalla lirica cantabilità più propriamente “alla Mendelssohn”: nel lungo arco melodico primeggia il violoncello, la cui voce è sfruttata in tutti i suoi registri e relative risorse, provocatrice d’immediata emozione. Il terzo tempo, Allegro vivo, nel suo tema principale, è un frastagliato lavorio ritmico, saltellante ed ironico, rimbalzante fra i due strumenti; cui non manca di opporsi un altro tema, lirico. L’abile trattazione dei vari elementi riporta però in primo piano, e specie alla chiusa di questo Finale, il carattere baldanzoso e fondamentale

che era quello dell’inizio della Sonata.

 

Gabriel Fauré Quartetto per pianoforte e archi n. 1, op. 15 in Do minore

Allegro molto moderato

Scherzo. Allegro vivo

Adagio

Allegro molto

 

La personalità e il ruolo di Gabriel Fauré (1870-1924), il centenario della morte del quale si è celebrato al Festival anche il 31 agosto con l’esecuzione della sua Barcarola, nella storia della musica francese e della sua cultura in generale, è molto importante: compositore, organista, didatta, organizzatore musicale e addirittura grande patriota, eroe dell’assedio di Parigi durante la Guerra franco-prussiana, Fauré ebbe ancora in vita il massimo riconoscimento della Nazione, mentre il suo ruolo di direttore del Conservatorio Superiore di Parigi rivela quanto fosse considerato tra i musicisti del suo tempo, in particolare per il ruolo didattico e educativo. Cento anni fa egli ricevette l’onore dei funerali di Stato alla Église de la Madeleine e le sue spoglie riposano nel Cimitero di Passy a Parigi. A volte definito “Schumann francese” il compositore, riconosciuto per il suo genio armonico, è anche considerato il maestro della melodia francese. Allievo di Camille Saint-Saëns egli a sua volta nel 1896 succedette a Jules Massenet come professore di composizione al Conservatorio di Parigi dove insegnò a grandi compositori come Maurice Ravel, Georges Enesco, Alfredo Casella, Lili e Nadia Boulanger.

Nel catalogo delle opere di Gabriel Fauré la musica da camera riveste un’importanza maggiore anche di quanto non traspaia già dal calcolo numerico delle composizioni: una ventina di brani, scritti in un arco cronologico che si estende per mezzo secolo, dal 1875 al 1925, brani che vedono tutti il concorso del pianoforte, ad eccezione dell’ultimo, il Quartetto per archi in Mi minore, op. 121. Rispetto alla produzione cameristica appare più significativa solamente la vastissima messe di chansons, mentre poco incisiva è la presenza delle opere per il palcoscenico, come di quelle orchestrali. Le sue liriche sublimi hanno suscitato le reazioni come

questa: «Signore», scrisse nel 1897 Marcel Proust a Fauré in occasione della pubblicazione di Parfum impérissable (una delle romanze op. 76 sul testo di Leconte de Lisle) «non è che mi piaccia, ammiri e adori la vostra musica: ne sono stato e ne sono tuttora innamorato». Un attento e raffinato ascoltatore come Proust non poteva non rimanere affascinato dal linguaggio musicale sofisticato e ricco di nuances di Fauré. L’interesse verso la produzione cameristica non è peraltro una caratteristica sorprendente per un compositore che iniziò la sua attività nell’ultimo trentennio del XIX secolo. Nella Francia della III repubblica, il ritorno alla musica da camera fu un orientamento comune a molti compositori, dopo l’apogeo delle grandi masse orchestrali favorito da Berlioz, Meyerbeer e Wagner. Di questo ritorno, tuttavia, Fauré fu un precursore. Come i suoi contemporanei, anch’egli non sfuggì alle suggestioni del wagnerismo, compiendo dei veri pellegrinaggi a Monaco e a Londra per poter ascoltare l’intera Tetralogia in teatro. Tuttavia, fin dagli anni giovanili, la musica di Fauré evita di seguire le strade delle sonorità corpose e sgargianti e preferisce indagare i timbri dimessi di pochi strumenti.

In questa prospettiva si inserisce il Quartetto per pianoforte ed archi op. 15, opera iniziata quando Fauré aveva trentun anni e nonostante la dignitosa posizione professionale conquistata – era maestro di cappella alla Madeleine – si trovava ancora nella fase iniziale di quello che sarebbe stato un lunghissimo travaglio formativo.

Nell’Allegro molto moderato iniziale troviamo ancora influenza di Brahms nel suo ritmo sincopato che dà all’apertura del Quartetto un inconfondibile carattere gitano. Il secondo tema, nella tonalità relativa di Mi bemolle, si appoggia sul sostegno arpeggiato del pianoforte in genere molto presente e assai virtuosistico. Qui viene osservata la classica forma di sonata, con uno sviluppo molto ampio basato essenzialmente su metamorfosi del primo tema, mentre il secondo emerge solo come un contrappunto. Segue uno Scherzo. Allegro vivo che costituirà un prototipo per le future generazioni di compositori, Debussy e Ravel in testa: non la danza notturna e fantastica del Romanticismo tedesco, ma un movimento brillante e leggero nell’abile gioco ritmico, l’alternanza di duine e terzine, delle figure in 6/8 e 2/4; mentre nel Trio troviamo una sorta di corale, animato dal lirismo degli archi, con i ricami del pianoforte. L’Adagio successivo è basato su un motivo fatto di poche note, su una breve cellula che si allarga e si arricchisce del lirismo e di cantabilità. L’Allegro molto conclusivo è luminoso, brillante e senza ombre. Fauré consegna alla musica da camera francese un suo modello estetico duraturo: quello che guarda con entusiasmo e commozione, come ha scritto Vladimir Jankélévitch, all’avvenire di molti “domani luminosi”.

 

​Commento a cura di Valerij Voskobojnikov