Villa Romana della Linguella | Portoferraio
David Grimal, Aki Saulière, Michael Guttman, violini | Sào Soulez Larivière, Georgy Kovalev, viole | Konstantin Pfiz, Raphael Bell, Jing Zhao, violoncelli | Alessandra Ammara, pianoforte
E. Schulhoff | Sestetto per archi (1920-1924) |
Allegro risoluto
Tranquillo: Andante
Burleska. Allegro molto con spirito
Molto Adagio
L. van Beethoven | Trio per pianoforte e archi op. 70 Geister |
Allegro vivace e con brio
Largo assai ed espressivo
Presto
Riprendiamo la presentazione del Sestetto di Erwin Schulhoff a firma di Stefano Catucci, scritta in occasione dell’esecuzione di questa opera ai Concerti della Radio 3 al Quirinale 13 gennaio 2019:
“Ebreo, comunista e con esperienze omossessuali: ce n’era abbastanza per bollare Erwin Schulhoff come musicista degenerato, impuro e pericoloso. Eppure non per questo venne imprigionato nel 1942 nel campo di concentramento di Wülzburg, dove di lì a poco morirà di tubercolosi, ma per la cittadinanza sovietica presa l’anno prima: nel giugno ’41 Schulhoff aveva appena ritirato il suo visto quando i nazisti invasero l’Unione Sovietica e gli fu impossibile partire e salvarsi. Schulhoff appartiene alla schiera di quei musicisti che testimoniano un momento del tutto speciale: guerra e prigionia alimentano nell’arte una creatività in stato di tragica emarginazione, coltivata spesso contro ogni speranza. Molti i nomi poco conosciuti, moltissima la musica di quegli anni che merita di rivivere, e non sempre solo con finalità documentarie. Per noi primo capitolo di un argomento degno di essere più spesso ritrovato.
Precoce talento musicale, Schulhoff bambino fu apprezzato da Dvořák (che gli regalò due pezzi di cioccolato); studiò tra l’altro con Max Reger e brevemente con Debussy. Figura di raccordo tra la cultura tedesca e quella ceca, Erwin Schulhoff fu un grande comunicatore, si adoperò per diffondere la “musica nuova” (interpretò tra l’altro la Sonata di Alban Berg, di cui fu amico) e collaborò spesso in produzioni musicali alla Radio di Praga.
Diventato artista di successo, pianista concertista e direttore oltre che compositore, Schulhoff incuriosì pubblico e critica per l’ironica e a volte irriverente originalità di alcuni suoi lavori. La Sonata erotica per sola voce femminile ad esempio (un orgasmo in piena regola con tanto di preliminari e abluzione finale) potrebbe lasciare dubbi sulla sincerità della sua ispirazione se non fosse datata 1919, il che garantisce nel modo più assoluto l’assenza di speculazioni commerciali di pessimo gusto.
Sperimentazione spinta agli eccessi quella di Schulhoff, come quel minuto e mezzo di silenzio, il pianista seduto alla tastiera davanti a uno spartito pieno di pause indicazioni dinamiche e qualche faccina (emoticon ante litteram…): così In futurum, terzo dei Cinque pezzi pittoreschi per pianoforte di quello stesso 1919, che precede di oltre trent’anni le intuizioni di John Cage.
Amante delle novità, affiliato al dadaismo, anche jazz e arie da music-hall entrano nel suo linguaggio ricalcando forme antiche, barocche soprattutto, che Schulhoff rivede buttando lo sguardo anche fuori dall’ambito “colto”: ecco il suo H.M.S. Royal Oak, Jazzoratorium del 1930 che procede nella linea stilistica dell’Opera di Brecht-Weill. Coltiva in musica anche l’ambito politico e la cultura popolare: ecco allora il Manifesto Comunista del 1932, cantata quadripartita su testo di Marx ed Engels, vero oratorio profano per soli coro e grande orchestra che pur nella prevedibile magniloquenza programmatica ha una sua intima carica e sincerità.
La scrittura di Schulhoff, varia ed originale, scontratasi a forza con la storia, ha una sua cifra particolare: quella del non aver ceduto alle catalogazioni e aver saputo rendere attuale a tutti i costi, a proprio rischio, le sue narrazioni musicali. Il suo jazz è vero, stilisticamente credibile, la sua musica da camera contiene abbondanti riferimenti al passato e al presente più colto, il suo sinfonismo è vario ma sempre espressivo di un preciso progetto formale. Un simile eclettismo (inevitabili i riferimenti a Šostakovič) può infastidire i puristi più intransigenti, ma a un ascolto attento coglieremo nella scrittura di Schulhoff un piacevole equilibrio tra la padronanza della tecnica, una personalità vivace e l’attenzione al presente. E dal presente di allora sono ancora moltissime le cose che suonano a noi familiari. Nel bene e nel male”.
Nato a Praga nel 1894, Erwin Schulhoff si è formato musicalmente a Vienna, Lipsia e Colonia, entrando in contatto con la lezione delle avanguardie del suo tempo e segnalandosi molto presto come uno degli autori più originali della sua generazione. È morto nel 1942 nel Lager di Wülzburg, in Baviera, dove era stato deportato in quanto ebreo l’anno prima, subito dopo l’invasione nazista della Cecoslovacchia. Sebbene il suo Sestetto per archi avesse avuto un’ottima accoglienza al debutto, avvenuto nel 1924, per la sua pubblicazione si è dovuto attendere il 1978. È un brano molto cupo, nel quale si sentono sia l’influenza di Schönberg, evidente nel primo movimento, scritto nel 1920, sia quella dell’ultimo Debussy, più sensibile negli altri tre, tutti risalenti al 1924. La composizione ruota costantemente intorno al gioco di tre note, Do-Re bemolle-Sol, le quali si rincorrono dando al Sestetto ora l’aspetto di un lavoro atonale, fluttuante, ora una maggiore centratura sulla tonalità di Do maggiore, come nell’energica burlesca e nel lirico Molto Adagio finale. Il Sestetto d’archi contiene contrasti violenti e un montaggio quasi cubista ed è stato un lavoro chiave nello sviluppo artistico di Schulhoff.
Beethoven ha composto dodici Trii per pianoforte, violino e violoncello, oltre a quattordici Variazioni in Mi bemolle maggiore riservate agli stessi strumenti e a due Trii in un solo movimento. Tra essi i più conosciuti e più volte eseguiti sono i due Trii dell’op. 70, di cui il primo in Re maggiore prende il titolo anche di Trio degli spettri (Geister-Trio) e il Trio op. 97, detto «dell’Arciduca», perché dedicato all’arciduca Rodolfo d’Austria (1788-1831), figlio minore dell’imperatore Leopoldo II. I due Trii dell’op. 70 furono scritti nell’autunno 1808 e dedicati alla contessa Anna Maria Erdödy, nel cui salotto a Vienna, luogo di convegno dell’aristocrazia e degli intellettuali del tempo, vennero eseguiti nel dicembre dello stesso anno da Beethoven al pianoforte, da Ignaz Schuppanzigh al violino e da Joseph Linke al violoncello. Trio in Re maggiore ha tre movimenti, ed è unico Trio beethoveniano di questa costruzione. Molti l’hanno definito come “Il Trio dei fantasmi”, “Geister Trio”. Anche se tale sottotitolo non è stato autorizzato dall’autore, esso corrisponde precisamente al contenuto musicale dell’opera, e soprattutto del suo secondo movimento, Largo assai ed espressivo, cupo e misterioso, con altri due movimenti prima e dopo molto brillanti. Si tratta di una delle più sorprendenti creazioni di Beethoven dove con tanta forza e brio il compositore ha riflettuto l’orrore che nasce nell’incontro con le forze dell’aldilà. Nel periodo del lavoro su questo Trio il compositore stava discutendo con il librettista von Collin il piano dell’opera Macbeth. Nel tempo lento Beethoven ha espresso la sostanza stessa della tragedia shakesperiana, l’Uomo e il Destino, tema principale della propria vita. La contrapposizione della volontà umana e dell’orrore umano di fronte al Fato. Nessun ascoltatore e nemmeno interprete può rimanere indifferente di fronte al battito accelerato del cuore, che si sente chiaramente in questa musica di enorme forza espressiva nella parte centrale del Trio. Sono estremamente efficaci ed espressive le melodie nel primo Allegro e ancor di più nel Largo in cui vengono trovati dal compositore dei timbri estremamente suggestivi che allargano al massimo le distanze fra suoni bassi e acuti; il brano è caratterizzato da un’estrema ricchezza di ritmi, da una continua invenzione nella variazione del materiale e da autentico virtuosismo, soprattutto nella parte del pianoforte, padrone assoluto nel Presto conclusivo, di carattere brillante e benevolo, tipicamente beethoveniano.
Di quella serata ci resta la testimonianza di Johann Friedrich Reichardt, già maestro di cappella di Federico II a Potsdam, che nel suo libro intitolato Lettere confidenziali scritte durante il viaggio a Vienna così la racconta: “Beethoven stesso ha suonato un Trio nuovissimo per pianoforte, violino e violoncello di grande forza e originalità, e fu assai bravo e risoluto. La contessa Erdödy e una sua amica, anche lei dama ungherese, mostrarono visibilmente il loro piacere per questa musica e per la stupenda esecuzione di Beethoven”. Più tardi, e precisamente il 3 marzo 1813, apparve sulla «Leipziger Allgemeine Musikalische Zeitung» una recensione del celebre scrittore e poeta romantico Ernst Teodor Amadeus Hoffmann, che sottolineava il valore di queste due composizioni con le seguenti parole: “Questi due magnifici Trii dimostrano quanto sia profondo in Beethoven lo spirito del Romanticismo e con quanta genialità egli si muova nella musica. Il primo Trio svolge un discorso continuo e compatto; il secondo movimento, un largo molto espressivo, ha un carattere dolcemente malinconico che fa bene all’animo”.
Sempre nell’anno 1808 il compositore e violinista Louis Spohr fu invitato a una prova a casa di Beethoven del Trio per pianoforte in Re maggiore Opus 70 n. 1 noto come “The Ghost” e scrisse dell’occasione: “Non è stata un’esperienza piacevole. Prima di tutto il pianoforte era tremendamente stonato, il che non disturbò minimamente Beethoven, poiché non poteva sentirlo. Poco o nulla rimaneva della brillante tecnica che era stata tanto ammirata… Ero profondamente commosso dalla tragedia di tutto ciò. La malinconia quasi continua di Beethoven non era più un mistero per me.”